"Pochi sono grandi abbastanza da poter cambiare il corso della storia. Ma ciascuno di noi può cambiare una piccola parte delle cose, e con la somma di tutte quelle azioni verrà scritta la storia di questa generazione"
Robert Francis Kennedy

lunedì 15 giugno 2009

La privacy di un capo di governo.Pubblicato da El Pais

fonte: http://sinistraliberale.blogspot.com/ venerdì 12 giugno 2009 Spagna. 'El Pais' risponde a Silvio Berlusconi e Nicolò Ghedini: "La privacy & il Premier"CondividiOggi alle 16.48Articolo originale di Marc Carrillo (docente di Diritto Costituzionale all’Università Pompeu Fabrade) su 'El Pais' - (1)13 Giugno 2009 --
Berlusconi può nascondersi dietro la tutela della privacy dopo la pubblicazione delle foto in Sardegna? No. Le immagini sono rilevanti: è un personaggio pubblico la cui vita privata contraddice il suo discorso politicoLa privacy è quell’ambito della vita privata di una persona che risulta inaccessibile agli altri, salvo che il proprio consenso non lo permetta. Ciò nonostante, è un diritto sottoposto a dei limiti. Infatti può essere sacrificato in favore del diritto di comunicare e di ricevere informazioni se queste sono di pubblico interesse. Le recenti informazioni che denunciano presunti casi di abuso di potere commessi dal primo ministro italiano, Silvio Berlusconi, riportano in primo piano il dibattito sul grado di protezione della privacy che una società democratica deve garantire a coloro che , per via della carica rappresentativa o della professione esercitata, occupano una posizione di rilievo nella vita pubblica e, pertanto, sono sottoposti al giudizio sociale.Soprattutto se si tratta di rappresentanti con responsabilità nell’ambito delle istituzioni democratiche.
Detto questo, non devono esserci dubbi sul fatto che le persone celebri, oggetto di pubblica notorietà, non cessano pertanto di essere titolari del diritto alla privacy. Ma è anche vero che i limiti all’informazione (comunicare fatti che li riguardano) o alla libera espressione (esprimere opinioni sulla loro condotta) devono essere molto più flessibili nel caso in cui intervengano ragioni di pubblico interesse, sia per quanto riguarda il loro comportamento pubblico, sia per quanto riguarda azioni private che possano avere una rilevanza pubblica.Questa è una condizione sine qua non della società aperta, che la giurisprudenza del Tribunale Europeo dei Diritti Umani ha ribadito, affermando che il diritto a comunicare informazioni su fatti di pubblico interesse occupa una posizione singolare nel sistema costituzionale dei diritti fondamentali, giacché una lesione o una restrizione ingiustificata di tale diritto non solo implica la limitazione del diritto fondamentale dei cittadini a ricevere informazioni, ma influisce anche negativamente sulla creazione e sul mantenimento di un’opinione pubblica libera, in quanto istituzione essenziale del sistema democratico (Sentenze Handyside c. Gran Bretagna del 7/XII/1976 e Lingens c. Austria, del 6/VII/1986). E questo vale anche per l’Italia.Recentemente, la stampa italiana – nonostante gli impedimenti del Ministero di Giustizia – e quella internazionale, specialmente EL PAIS, hanno dato un’eco grafica ai sospetti di abuso di potere riguardanti il primo ministro Berlusconi.
Questi abusi comprendono l’avere incoraggiato l’approvazione di leggi ad hoc affinché su dei voli ufficiali e, pertanto, con mezzi pubblici, possano viaggiare ospiti privati per attività ludiche, o l’aver promosso a incarichi di responsabilità, nelle liste elettorali del suo partito al Parlamento Europeo o nello stesso Consiglio dei Ministri, persone il cui unico merito politico è stata la bellezza, secondo quanto dichiarato orgogliosamente dallo stesso premier.
Berlusconi, tuttavia, ha considerato che la pubblicazione delle foto scattate nella sua tenuta in Sardegna, pur rendendo irriconoscibili le immagini dei protagonisti, attenta alla privacy dei suoi invitati ed ha annunciato azioni legali nei confronti di questo giornale.
Tuttavia ci sono forti ragioni di ordine giuridico, basate sul pubblico interesse delle informazioni diffuse, che permettono di sostenere che il diritto di informare su questi fatti non può essere limitato. Vediamole.La prima è che appare indubbiamente ragionevole la legittimità di cui dispongono i mezzi di comunicazione di informare sull’uso che il primo ministro fa di alcune singolari leggi, approvate con l’obiettivo di autorizzarlo a invitare i suoi amici a viaggiare su voli ufficiali.Soprattutto quando lo scopo è quello di partecipare, con mezzi finanziati dall’erario, ad attività ludiche di carattere privato. Che una legge permetta di portare a termine ciò che è obiettivamente un abuso di potere, tristemente avallato dal Parlamento, non può essere un ostacolo affinché la stampa possa informare al riguardo, anche con mezzi grafici e – questo sì – con lo scrupolo di non diffondere particolari irrilevanti, come l’identità dei partecipanti.
Che uno di essi si sia sentito chiamato in causa – l’ex premier ceco Topolanek – è solamente affar suo.
Ciò che realmente risulta importante è il fatto in sé dell’ostentazione che Berlusconi fa del lusso privato finanziato parzialmente con denaro pubblico, protetto dalla legge ad hoc. E pertanto quella stessa legge non può impedire che le persone vengano informate riguardo a tali attività, perché, se così fosse, sarebbe incostituzionale e sarebbe inoltre una conseguenza consustanziale derivata dall’articolo 21, comma 2 della Costituzione della Repubblica, che stabilisce che “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censura”.
È ovvio che in Italia, e in qualsiasi paese democratico, garantire l’informazione su fatti di questa natura è una questione di ordine pubblico democratico. Senza che, di contro, si possa accettare l’evidente strumentalizzazione del diritto alla privacy dei suoi ospiti, come ha fatto il premier italiano.Il diritto alla privacy, come diritto a non essere infastidito, è protetto dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’uomo (art. 8). Ma quando ciò che si censura pubblicamente sono i comportamenti dei politici nella loro sfera pubblica – come il promuovere una legge che permette l’uso di fondi pubblici per scopi privati – il diritto di comunicare le informazioni (art. 10) non può essere interpretato – sostiene il Tribunale di Strasburgo – alla luce del diritto alla privacy. Con ciò si intende dire che i limiti della critica permessa sono più ampi in relazione a un politico, quando questi agisce come tale, come fa Berlusconi quando trae beneficio da una legge per favorire la sua cerchia di amicizie e mescola ingiustamente lo spazio pubblico con quello privato.
Naturalmente anche un politico gode del diritto alla privacy, anche quando agisce in ambito pubblico, ma in tal caso la protezione della sua intimità deve essere equilibrata con gli interessi della libera discussione delle questioni politiche (Sentenza, Caso Lingens, 1986). A tal proposito, il Tribunale di Strasburgo ha ricordato che, nel caso in cui un politico si trovi in una situazione in cui vengano occultati la sua attività politica e i suoi affari privati, può avere luogo una dibattito politico che scateni una dura critica, nell’ambito del diritto di comunicare le informazioni e della libertà di espressione (Sentenza, caso Dichand, del 26/02/2002).
E la pubblicazione delle foto scattate nella residenza privata del primo ministro è un modo legittimo di promuovere un dibattito pubblico sull’abuso di potere.Una seconda ragione concerne le esigenze di una società aperta: i rappresentanti devono rendere conto di comportamenti incoerenti ed ipocriti. Pertanto è necessario ottenere in modo diligente informazioni veraci e successivamente comunicarle alla società.
Nel caso Berlusconi, la confusione tra pubblico e privato palesata da questo rappresentante pubblico eletto democraticamente, fa sorgere pochi dubbi all’interno del dibattito politico riguardo all’abuso di potere e alla promozione del clientelismo che, sotto la sua ala protettrice, e grazie alle sua acquiescenza, si sta espandendo. Conoscere tali fatti in tutta la loro dimensione, per quanto possa risultare amaro, è oggettivamente un motivo di pubblico interesse.
La società italiana, e di riflesso quella europea nell’ambito dell’Unione, non può scrollare le spalle di fronte ai comportamenti di un politico che possiede un tale livello di responsabilità istituzionale sia nel proprio paese, sia in Europa.
E l’interesse cresce quando, accanto a questa esibizione di eccessi che rasenta l’oscenità istituzionale, il primo ministro, in un esercizio di evidente ipocrisia, si è reso protagonista, come nel caso Eluana Englaro, di un conflitto istituzionale con il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il quale, con squisita prudenza, gli ha dovuto ricordare che non poteva ratificare un decreto legge palesemente incostituzionale mediante il quale Berlusconi, adottando posizioni proprie di un cattolicesimo ultramontano, pretendeva di impedire l’esecuzione di una sentenza della Corte di Cassazione, con lo scopo di prolungare la vita di una donna in stato vegetativo da più di quindici anni.
La società italiana deve avere l’opportunità di contrastare attraverso l’informazione queste miserie che la danneggiano.
La pubblicazione delle foto in Sardegna è, pertanto, di pubblico interesse, perché in questo modo si riesce a consolidare un’opinione pubblica libera.(1) -
Articolo originale: "La intimidad y el primer ministro"
http://www.elpais.com/articulo/opinion/intimidad/primer/ministro/elpepiopi/20090610elpepiopi_10/Tes/

Il bavaglio colpisce anche la rete

Considerazioni relative all’art. 18 relativa alla estensione a tutti i siti informatici delle procedure di rettifica delle informazioni ritenute non veritiere o lesive della reputazione dei soggetti coinvolti. Non bastava il controllo assoluto dell’informazione radiotelevisiva ma era necessario colpire anche la rete. Le recenti elezioni hanno dimostrato come Internet sia oramai rimasto il solo strumento utile per accedere ad una libera informazione, priva di controllo o censura, anche sui temi della politica. Evidentemente il Governo ha ritenuto di dover intervenire per reprimere anche l’ultimo spazio di democrazia attraverso un provvedimento che, pur non riguardando affatto la Rete, imbriglia e censura la libertà di opinione e di accesso alle informazioni, tutelata dalla Costituzione. Altro che conflitto di interessi. Sotto il profilo giuridico, se ci riferiamo all’attività di informazione svolta dai mezzi di informazione tradizionali, la disciplina dell’accountability delle informazioni in vigore è già molto rigida ed ampiamente disciplinata poiché i giornalisti sono soggetti alla legge sull’ordinamento della professione di giornalista (legge n. 69/1963) e alla Carta dei doveri del giornalista e alla vigilanza da parte dell’Ordine. La tutela dell’informazione in ambito comunitario arriva al punto che la stessa Corte europea ha dato risalto all’interesse generale alla divulgazione dei documenti nonostante la loro provenienza illecita. Per quanto riguarda invece i siti di informazione “non tradizionali” costituiti perlopiù da semplici utenti (blogger amatoriali) va evidenziato che: 1. La norma proposta è in violazione di uno dei principi fondamentali espressi dalla nostra carta costituzionale (art. 21 Cost.) che autorizza la libera manifestazione di pensiero in tutte le sue forme salvo che non si tratti di attività contrarie al buon costume. 2. In caso di informazione veicolata attraverso siti informatici “non tradizionali”, la norma in vigore (art. 16, D.Lgs. 70/2003) dichiara che il prestatore del servizio (hoster) non è responsabile dei contenuti memorizzati salvo che non sia a conoscenza dell’illiceità dell’informazione. Con “informazione illecita” si intende una informazione contraria alla legge: le informazioni non veritiere o lesive della persona non sono sempre illecite. 3. L’articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali sancisce, infatti, che il diritto alla libertà di espressione, tra cui si menziona la libertà di ricevere informazioni (dalle fonti della notizia), è tutelato senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche. Ulteriore criticità è la concreta applicazione della norma proposta relativamente a: 1. La definizione e identificazione di siti di informazione, poiché la norma stessa risulterebbe di difficile applicazione nel caso di piattaforme che tipicamente ospitano contenuti realizzati da utenti terzi, perlopiù non identificabili direttamente ma tramite un indirizzo e-mail, come Youtube, Facebook, ecc. 2. La vigilanza per il rispetto del dettato normativo, soggetta ad eccessiva discrezionalità, o che rischierebbe di creare facili discriminazioni tra alcuni siti, probabilmente i più diffusi o gestiti da utenti “scomodi” rispetto all’intero universo dei blogger presenti in rete. Tra l’altro giova portare a conforto di tale considerazione, il dibattito in corso a livello internazionale: 1) negli Stati Uniti, l’accountability dell’informazione fornita da siti di informazione “non tradizionali” o non di stampo giornalistico viene demandata alla capacità di discernimento della stessa utenza, con il risultato di perdita di utenti/credibilità di fronte ad una costante veicolazione di informazioni ritenute non veritiere; 2) in Francia, la Corte Costituzionale ha censurato proprio ieri la discussa legge su Internet, ribadendo la validità dei diritti fondamentali della libertà di espressione e comunicazione (che può essere limitata solo dall’Autorità giudiziaria) e confermando – al contrario di quanto sostenuto dal Ministro della Cultura francese - che Internet è un diritto fondamentale. In queste ore tutti questi temi sono rimasti in ombra e le informazioni sostanziali non sono neppure arrivate ai diretti interessati. Le norme relative alla rete costituiscono un altro aspetto della aggressione in atto nei confronti del pluralismo editoriale già, profondamente sfigurato dai conflitti di interesse e dalle concentrazioni della proprietà e delle reti in pochissime mani. Per queste ragioni l’associazione Articolo21 ha deciso di costituire, insieme con Libera Informazione, un comitato composto da avvocati, da giuristi e da costituzionalisti con il compito non solo di disattivare le norme ma anche di creare le immediate condizioni affinchè la Corte Costituzionale e la Corte di Giustizia Europea possano esprimere l’inevitabile giudizio di bocciatura. Giuseppe Giulietti

venerdì 12 giugno 2009

Le verità che non avremmo saputo

Intercettazioni, ecco come la riforma toglie spazio ai pm e limita la stampaDa Lady Asl agli immobiliaristi: l'obbligo di indizi "evidenti" impedirebbe molti controlliTangenti, "furbetti" e Calciopoli.
ROMA - Gli orrori della clinica Santa Rita di Milano? Sarebbero rimasti ben segreti.
Le partite truccate di Calciopoli? Avrebbero continuato a essere giocate.
L'odioso stupro della Caffarella? Gli autori sarebbero ancora liberi.
Il sequestro dell'imam Abu Omar? I pm di Milano non l'avrebbero mai scoperto.
E gli agenti del Sismi che collaborarono con la Cia non avrebbero mai lasciata impressa sul nastro la fatidica frase "quell'operazione è stata illegale".
Lady Asl e la truffa della sanità nel Lazio? La cupola degli amministratori regionali avrebbe continuato ad operare indisturbata.
I furbetti del quartierino? Per le scalate Antonveneta e Bnl forse non ci sarebbero stati gli "evidenti indizi di colpevolezza" per mettere i telefoni sotto controllo.
A rischio le inchieste potentine di Henry John Woodcock, Vallettopoli, Savoiopoli, affaire Total, tangenti Inail, dove i nastri hanno continuato a girare per otto-nove mesi prima di produrre prove, e quelle calabresi (Poseidone, Toghe lucane, Why not) dell'ormai deputato europeo Luigi De Magistris.
Una moria impressionante, in cui cadono processi famosi e meno famosi, in cui le indagini sulla mafia sono messe a rischio perché non si potrà più mettere sotto controllo telefoni per truffa ed estorsione.
Si salva Parmalat dove, come assicurano i pm di Milano e di Parma, le intercettazioni non furono determinanti né per arrestare Calisto Tanzi in quel dicembre 2003, né per accertare ragioni e colpevoli del crack.
Ha detto e continua a dire l'Anm con una frase ad effetto, "è la morte della giustizia penale in Italia".
Nelle stesse ore in cui alla Camera, con il concorso dell'opposizione nonostante l'appello del giorno prima a Napolitano di Pd, Idv, Udc, si approva la legge sugli ascolti, nelle procure italiane, tra lo sconcerto e l'irritazione delle toghe, si fanno i conti delle intercettazioni che non si potranno più fare in futuro e di quelle che, in un passato recente, non sarebbero mai state possibili.
E, anche se fossero state fatte, non si sarebbero mai potute pubblicare, né nella versione integrale, né tantomeno per riassunto.Le indagini cadono su due punti chiave della legge: "evidenti indizi di colpevolezza" per ottenere un nastro, solo 60 giorni per registrare.
Così schiatta l'indagine sulla clinica Santa Rita che parte con una truffa ai danni dello Stato per via dei rimborsi gonfiati e finisce per rivelare che si operava anche quando non era necessario. Non solo sarebbero mancati gli "evidenti indizi" (se ci fossero stati i pm Pradella e Siciliano avrebbero proceduto con gli arresti), ma non si sarebbe andati avanti per undici mesi, dal 4 luglio 2007 al 24 giugno 2008. Giusto a metà, era settembre, ecco le prime allusioni a un reparto dove accadevano "fatti gravi". Niente ascolti, niente testi sui giornali, niente versione integrale letta al processo, niente clinica costretta a cambiare nome per la vergogna.
Cambia corso il caso Abu Omar, nato come un sequestro di persona semplice contro ignoti. Solo due mesi di tape. Ma la telefonata chiave, quando l'imam libero per una settimana racconta alla moglie la dinamica del sequestro, giunge solo allo scadere dei 12 mesi d'ascolto. In più la signora, in quanto vittima, non avrebbe mai dato l'ok a sentire il suo telefono, come stabilisce la nuova legge.
Per un traffico organizzato di rifiuti a Milano, dove arrivava abusivamente anche la monnezza della Campania, hanno fatto 1.500 intercettazioni per sei mesi. Solo dopo i primi due s'è scoperto cosa arrivava dal Sud. In futuro impossibile.
Come gli accertamenti che fanno scoprire i mafiosi. A Palermo hanno intercettato l'imprenditore Benedetto Valenza per quattro mesi: dalla truffa e dalla frode nelle pubbliche forniture sono arrivati a scoprire che riciclava i soldi del clan Vitale e forniva cemento depotenziato pure agli aeroporti di Birgi e Punta Raisi.
Idem per l'inchiesta contro gli amministratori di Canicattì e Comitini che inizia per abuso d'ufficio e corruzione e approda a un maxi processo contro le cosche di Agrigento. Telefoni sotto controllo per sei mesi, ormai niente da fare."La gente sarà meno sicura" dicono i magistrati.
E citano lo stupro della Caffarella d'inizio anno. Due arresti sbagliati (i rumeni Ractz e Loyos), il vanto di aver fatto tutto "senza intercettazioni", poi il ricorso all'ascolto sul telefono rubato alla vittima. Domani impossibile perché in un delitto contro ignoti si può intercettare solo il numero "nella disponibilità della persona offesa". Assurdo? Contraddittorio? Sì, ma ormai è legge.

giovedì 11 giugno 2009

Quello che sui giornali non leggerete più.

Le nuove regole sulle intercettazioni vanno incontro a una vera ossessione del Cavaliere.
Vietato trascrivere anche se un capo Rai chiede silenzio su dati elettorali non graditi al Capo. Quello che sui giornali non leggerete più.
di GIUSEPPE D'AVANZO da "Repubblica"
"Se escono fuori registrazioni lascio questo Paese". Lo disse Berlusconi l'anno scorso, ad Ancona, e così annunciò la sua offensiva contro le intercettazioni. Più che un'offensiva, la distruzione risolutiva di uno strumento d'indagine essenziale per la sicurezza del Paese e del cittadino. "Permetteremo le intercettazioni - disse nelle Marche quel giorno, era aprile - soltanto per reati di terrorismo e criminalità organizzata e ci saranno cinque anni di carcere per chi le ordina, per chi le fa, per chi le diffonde, oltre a multe salatissime per gli editori che le pubblicano".
Come d'abitudine, il Cavaliere la spara grossa, grossissima, consapevole che quel che ha in mente è un obiettivo più ridotto, ma tuttavia adeguato alla volontà di togliere dalla cassetta degli attrezzi della magistratura e delle polizie un arnese essenziale al lavoro. E, dagli strumenti dell'informazione, un utensile che, maneggiato con cura (e non sempre lo è stato), si è dimostrato molto efficace per raccontare le ombre del potere.
La possibilità di essere ascoltato nelle sue conversazioni - magari perché il suo interlocutore era sott'inchiesta, come gli è accaduto nei colloqui con Agostino Saccà o, in passato, con Marcello Dell'Utri - è per il Cavaliere un'ossessione, un'ansia, una fobia.
Ci è incappato più d'una volta.
Nel Capodanno 1987, alle ore 20,52 dalla villa di Arcore (Berlusconi festeggia con Fedele Confalonieri e Bettino Craxi).Berlusconi. Iniziamo male l'anno!Dell'Utri. Perché male?Berlusconi. Perché dovevano venire due [ragazze] di Drive In che ci hanno fatto il bidone! E anche Craxi è fuori dalla grazia di Dio!Dell'Utri. Ah! Ma che te ne frega di Drive In?Berlusconi. Che me ne frega? Poi finisce che non scopiamo più! Se non comincia così l'anno, non si scopa più!Dell'Utri. Va bene, insomma, che vada a scopare in un altro posto!
La conversazione racconta la familiarità tra il tycoon e un presidente del consiglio allora in carica che gli confeziona, per i suoi network televisivi, un decreto legge su misura, poi bocciato dalla Corte Costituzionale.
Già l'anno prima, il giorno di Natale del 1986, il nome di Berlusconi era saltato fuori in un'intercettazione tra un mafioso, Gaetano Cinà, e il fratello di Marcello Dell'Utri, Alberto Cinà. Lo sai quanto pesava la cassata del Cavaliere?Dell'Utri. No, quanto pesava, quattro chili?Cinà. Sì, va be'! Undici chili e ottocento!Dell'Utri. Minchione! E che gli arrivò, un camion gli arrivò?Cinà. Certo, ho dovuto far fare una cassa dal falegname, altrimenti si rompeva!
Perché un mafioso di primo piano come Cinà si prendesse il disturbo di regalare un monumento di glassa al Cavaliere rimane ancora un enigma, ma documenta quanto meno il tentativo di Cosa Nostra di ingraziarselo.
Al contrario, è Berlusconi che sembra promettere un beneficio ad Agostino Saccà, direttore di RaiFiction quando, il 6 luglio 2007, gli dice: "Io sai che poi ti ricambierò dall'altra parte, quando tu sarai un libero imprenditore, mi impegno a ... eh! A darti un grande sostegno". Che cosa chiedeva il premier? Il favore di un ingaggio per una soubrette utile a conquistare un senatore e mettere sotto il governo Prodi. O magari...Ancora uno stralcio:Saccà. Lei è l'unica persona che non mi ha mai chiesto niente, voglio dire...Berlusconi. Io qualche volta di donne... e ti chiedo... per sollevare il morale del Capo (ridendo).E in effetti, con molto tatto, Berlusconi chiede di sistemare o per lo meno di prendere in considerazione questa o quella attrice. Qualcuna "perché sta diventando pericolosa".
È l'ascolto di queste conversazioni, disvelatrici dei rapporti con una politica corrotta, con il servizio pubblico televisivo in teoria concorrente, addirittura con poteri criminali, che il premier vuole rendere da oggi irrealizzabile per la magistratura e vietato alla pubblicazione, anche la più rispettosa della privacy.
Per scardinare, nell'opinione pubblica, la convinzione che gli ascolti telefonici, ambientali, telematici servano e non siano soltanto una capricciosa bizzarria di toghe intriganti e sollazzo indecente per cronisti ficcanaso, Berlusconi ha costruito nel tempo una narrazione dove si sprecano numeri iperbolici ed elaborate leggende.
Dice: "Si parla di 350 mila intercettazioni, è un fatto allucinante, inaccettabile in una democrazia". Fa dire al suo ministro di Giustizia che gli italiani intercettati sono addirittura "30 milioni" mentre sono 125 mila le utenze sotto ascolto (le utenze telefoniche, non gli italiani intercettati).
Alla procura di Milano, per fare un esempio, su 200 mila fascicoli penali all'anno, le indagini con intercettazioni restano sotto il 3 per cento (6136).
Altra bubbola del ministro è che gli ascolti si "mangiano" il 33 per cento del bilancio della giustizia mentre invece sfiorano soltanto il 3 per cento di quel bilancio (per la precisione il 2,9 per cento, 225 milioni di costo contro i 7 miliardi e mezzo del bilancio annuale della giustizia).
Senza dire che, per inerzia del governo, lo Stato paga al gestore telefonico 26 euro per ogni tabulato, 1,6 euro al giorno per intercettare un telefono fisso, 2 euro al giorno per in cellulare e 12 per un satellitare e l'esecutivo non ha tentato nemmeno di ottenere dalle compagnie telefoniche un pagamento a forfait o tariffe agevolate in cambio della concessione pubblica (accade all'estero).
Nonostante questa inerzia, le intercettazioni si pagano da sole, anche con una sola indagine. Il caso di scuola è l'inchiesta Antonveneta. Costo dell'indagine, 8 milioni di euro. Denaro incassato dallo Stato con il patteggiamento dei 64 indagati, 340 milioni. Il costo di un anno di intercettazioni e avanza qualche decina di milioni da collocare a bilancio, come è avvenuto, per la costruzione di nuovi asili.
Comunque la si giri e la si volti, questa legge serve soltanto a contenere le angosce del premier e dei suoi amici, a proteggere le loro relazioni e i loro passi, a salvaguardare il malaffare dovunque sia diffuso e radicato.
Per il cittadino che chiede sicurezza e vuole essere informato di quel accade nel Paese è soltanto una sconfitta che lo rende più debole, più indifeso, più smarrito.
Se la legge dovesse essere confermata così com'è al Senato, i pubblici ministeri potranno chiedere di intercettare un indagato soltanto quando hanno già ottenuto quei "gravi indizi di colpevolezza" che giustificherebbero il suo arresto.
E allora che bisogno c'è delle intercettazioni? Forse è davvero la morte della giustizia penale, come scrive l'associazione magistrati. Certo, è l'eclissi di un segmento rilevante dell'informazione. Da oggi si potranno soltanto proporre dei "riassuntini" dell'inchiesta e delle prove raccolte. Non si potrà pubblicare più alcun documento, nessun testo di intercettazione.La cronaca, queste cronache del potere, però, non sono soltanto il racconto di imprese delittuose. Non deve esserci necessariamente un delitto, una responsabilità penale in questi affreschi. Spesso al contrario possono rendere manifesto e pubblico soltanto un disordine sociale, un dispositivo storto che merita di essere raccontato quanto e più di un delitto perché, più di un delitto, attossica l'ordinato vivere civile.Immaginate che ci sia un dirigente della Rai che, in una sera elettorale, chiama al telefono un famoso conduttore e gli chiede di lasciar perdere con gli exit poll che danno un risultato molesto per "il Capo".
Immaginate che il dirigente Rai per essere più convincente con il conduttore spiega che quello è "un ordine del Capo". Non c'è nulla di penale, è vero, ma davvero è inutile, irrilevante raccontare ai telespettatori che la scena somministrata loro, quella sera, era truccata?Bene, ammesso che questa sia stata una conversazione intercettata recentemente in un'inchiesta giudiziaria, non la leggerete più perché l'ossessione del premier, diventata oggi legge dello Stato, la vieta. Chi ci guadagna è soltanto chi ha il potere.
Chi deve giudicarlo non ne avrà più né gli strumenti né l'occasione.