di EZIO MAURO
Il nuovo Calvario su cui è salita Eluana Englaro e dove è morta ieri sera, è questa fine tutta politica, usata, strumentalizzata, quasi annullata nella riduzione a puro simbolo e pretesto feroce di una battaglia di potere che è appena incominciata e nell'usurpazione del suo nome segnerà la nostra epoca. Il vero sgomento è nel dover parlare di queste cose, davanti alla morte di Eluana. Bisognerebbe soltanto tacere, riflettere su quell'avventura umana, sulla tragedia di una ragazza diventata donna adulta nella perenne incoscienza del suo letto d'ospedale, su quelle vecchie fotografie piene di vita e di bellezza rovesciate nella costrizione immobile di un'esistenza minima, inconsapevole. Voleva vivere, quel corpo che respirava? O se avesse potuto esprimersi, avrebbe ripetuto la vecchia idea di volersene andare, come aveva detto da ragazza Eluana a suo padre, molti anni fa, quando poteva parlare e pensare? È la domanda che si fa ognuno di noi, quando è accanto ad un malato che non può più guarire, in un ospedale o in una clinica. È un'angoscia fatta di carezze e interrogativi, dopo che le speranze si sono tutte dissolte. Di giuramenti eroici - fino alla fine, pur di poterti ancora vedere, toccare, pur di immaginare che senti almeno il tepore del sole, che stringi una mano, e non importa se nei riflessi automatici dell'incoscienza. Ma è un'angoscia fatta anche di domande sul futuro, che si scacciano ma tornano: fino a quando? E come, attraverso quale percorso di sofferenza, di degenerazione, di smarrimento di sé? E alla fine, perché? C'è una vita da conservare, o in queste condizioni è un simulacro di vita, un'ostinazione, una costrizione? È per lei o è per noi che la teniamo viva? Quegli atti inconsapevoli che in certe giornate rasserenano, e sono tutto - il respiro, naturalmente, un tremito di ciglia - altre volte sembrano una condanna meccanica, soprattutto inutile. Perché la vita è un bene in sé, ma deve pur servire a qualcosa, avere un senso.
Questo è stato per 17 anni il dramma di un padre. Accanto al letto della sua Eluana, lui è vivo, vede, ama, soffre, s'interroga, si dispera e ragiona. Diciassette anni sono lunghissimi, la speranza fa in tempo ad andarsene senza illusioni, c'è il realismo dei medici, l'evidenza quotidiana. Una figlia che ogni giorno si allontana dall'immagine della vita mentre resiste, ogni giorno è presente nel suo bisogno di assistenza ma non sente più l'amore, lo sconforto, la presenza. Nulla. È lontana e tuttavia respira, mentre il padre la guarda. Lui ricorda quel che la figlia voleva, quel che avrebbe voluto. Non so che cosa pensi, come arrivi alla decisione, se gli faccia paura l'idea di un futuro in cui lui potrebbe non esserci più, con la madre gravemente malata. Se ha ceduto, facendo la sua scelta, o se invece ha dovuto farsi forza. So che in quel padre, in questi 17 anni, si somma il massimo del dolore e dell'amore per Eluana. Questo non significa automaticamente che tutto ciò che lui decide sia giusto. Ma significa che lui ha un diritto, il diritto di raccogliere la volontà di un tempo di Eluana e di confrontarla con la sua volontà, com'è venuta maturando accanto a quel letto d'ospedale, in un percorso che lui solo conosce, e che nasce dal rapporto più intimo e più autentico di un uomo con sua figlia, nei momenti supremi. Il padre potrebbe risolvere il problema nell'ombra, come fanno molti e come vogliono i Pilati italiani, pur di non vedere e di non sentire. Potrebbe cioè chiudere l'esistenza di Eluana nel moderno, silenzioso, neutro "rapporto" tra medico e familiare del paziente terminale. Bastano poche parole, poi un giorno uno sguardo d'intesa, un cenno del capo, e tutto finisce senza clamore. Ma quello del padre, in questo caso, non è "un problema". È la sua stessa esistenza, congiunta con quella di sua figlia, che non sanno come procedere e come sciogliersi. È una cosa infinitamente più grande di lui, che tutto lo pervade e lo domina, altro che "problema", altro che "rapporto" tra un medico e una famiglia, altro che scelte silenziose e sbrigative, purché nulla sia detto davvero, niente chiamato col suo nome. Ciò che molti dicono tragedia, in questi casi, quel padre la vive davvero, al punto da urlarla. Vuole che gli altri sappiano. Vuole che gli dicano se quel che fa è giusto o sbagliato. Lui ha deciso di chiedere allo Stato di lasciar andare Eluana. Chiede che lo Stato risponda, dunque si faccia carico, non se ne lavi le mani. Solo così, portata in pubblico, la tragedia di quella figlia servirà a qualcosa, a qualcuno, e quei 17 anni acquisteranno un senso per tutti, quasi un insegnamento. Non so se sia giusto o sbagliato. A me sembra un gesto d'amore, supremo, che nasce dal profondo di una desolazione e di un abbandono, perché l'una e l'altro non siano del tutto inutili, visto che già sono purtroppo inevitabili. C'è qualcosa di più. Quel gesto verso lo Stato - violento: dimmi cosa devo fare, dimmi come posso fare, dimmi qualcosa, io sono solo ma resto cittadino e ho il diritto d'interpellarti - è un gesto che nasce dall'interno di una famiglia. Strano che nessuno lo abbia detto. Quel padre fa la spola tra una moglie malata gravissima e una figlia incosciente da un numero d'anni che non si possono nemmeno contare. Nessuno ha nemmeno il diritto, da fuori, di immaginare il suo tormento, il filo dei pensieri, la disperazione che deve tenere a bada mentre guida, mentre telefona, quando prova a dormire. Tra moglie e figlia, giorno dopo giorno, lui tiene insieme la sua famiglia. Ciò che resta, certo. Ma anche: ciò che è. Esiste forse una famiglia italiana, in questo 2009, più "famiglia" di questa? Lui parla con le sue due donne, ogni tanto con parole inutili, più spesso nella mente. Provano a ragionare insieme, è finzione, certo, ma è la cosa più vicina alla realtà, è l'unica possibile perché la famiglia esista non solo a livello fisico, delle due presenze malate in clinica con l'uomo lì accanto, ma anche a livello spirituale, come comunione possibile: anni insieme, gioie, speranze, amore, abbracci, progetti, un modo di pensare, di sentire, un modo di essere comune. La decisione che il padre prende, la prende in nome della sua famiglia. Non per sé, per tutti. Fa spavento pensare a questo, e poi pensare al futuro, ma è l'unica verità possibile. L'unica cosa autentica. Quella famiglia, a un certo punto, dice che l'esistenza di Eluana, così com'è ridotta, deve finire. Nessuno può sapere se nella sensibilità acutissima della sua solitudine tra le due donne il padre ha deciso così perché lo ritiene un ultimo gesto d'attenzione, una cura estrema e finale per quella figlia; oppure perché non ce la fa più. Se lui non ce la fa più, è la famiglia che si ferma, che non può andare oltre. Loro sono insieme: ancor più negli ultimi diciassette anni. L'unico modo per non prendere su di sé tutto il peso di questa decisione, per il padre è quello di decidere in pubblico. Come se questo Paese fosse in grado - ben al riparo dalla tragedia, naturalmente - non solo di compatire, come sa fare benissimo, soprattutto in televisione. Ma per una volta, di condividere. Il padre si aspettava la discussione, la polemica, gli attacchi e anche gli insulti. Aveva scritto una lettera a "Repubblica", l'altro giorno, che poi ha voluto rinviare ancora. Chiedeva di attaccarlo liberamente, purché si accettasse di discutere davvero la grande questione del cosiddetto caso Englaro. Domandava soltanto di risparmiare la morbosità degli sguardi e delle curiosità sugli ultimi istanti di Eluana. Negli ospedali, diceva, nelle corsie, a un certo punto si tira una tenda per riparare il momento finale di chi sta morendo. Quel che il padre non poteva prevedere, era l'altra morbosità, più feroce: quella della politica, della destra italiana. Prima l'inverosimile conferenza stampa di Berlusconi, che usava più di metà del tempo per attaccare il Capo dello Stato in nome della potestà suprema e incondizionata del governo, e quando parlava di Eluana - dopo aver detto di non volersi assumere la responsabilità della sua morte - arrivava a pronunciare frasi offensive: il "figlio" che la ragazza potrebbe avere, il "gravame" a cui il padre vorrebbe rinunciare. Poi l'attacco alla Costituzione, come se una tragedia fosse fondatrice del diritto. Infine, ieri, alla notizia della morte di Eluana, il peggio, qualcosa a cui non volevamo credere. Berlusconi che punta dritto sul presidente Napolitano come responsabile diretto della tragedia ("l'azione del governo per salvare una vita è stata resa impossibile"), un gesto di violenza politica senza precedenti in democrazia, nel linguaggio tipico dei regimi contro i dissenzienti, quando si mescola politica e criminalità. Subito seguito dall'amplificazione di personaggi minori e terribili, come Quagliarello che parla di "assassinio", Gasparri che minaccia dicendo quanto pesino "le firme messe e non messe". Borghezio che chiama in causa i "dottor morte" colpevoli di "omicidio di Stato", anche da "altissime cariche istituzionali". È miserabile sfruttare una morte per trarne un vantaggio politico. È vergognoso trascinare il Capo dello Stato sul terreno della vita e della morte per aver esercitato i suoi doveri di custode della Costituzione. È umiliante assistere a questo degrado della politica. È preoccupante scoprire qual è la vera anima della destra italiana, feroce e crudele nella cupidigia di potere assoluto, incurante di ogni senso dello Stato, aliena rispetto alle istituzioni e allo spirito repubblicano, con l'eccezione ogni giorno più forte e più netta del presidente della Camera Fini. Con la strumentalizzazione di una tragedia nazionale e familiare, e con gli echi cupi di chi tenta di trasformare la morte in politica, è iniziata ieri sera la fase più pericolosa della nostra storia recente per le sorti della Repubblica.
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